martedì 1 dicembre 2015

Toccare il cielo con un.. mito

Che senso ha oggi occuparsi di mito?
Nessuno, davvero nessuno. Quantomeno non un senso evidente, non un pret-a-porter, ma una costellazione di sensi all'interno della quale interrogarsi su quel che siamo o che, per dirla alla Montale, non siamo.
Nella sua sintesi più estrema il mito è racconto e parola. L'uno intrecciato all'altro, profondamente, inesorabilmente.
Non potremmo immaginare l'Aurora se non con le  "dita rosa", non potremmo pensare  Ulisse senza astuto, politropo e ad Afrodite senza sorriso.
Il racconto è costellato di parole che  scolpiscono dentro, nel nostro cuore, nelle nostre anime.
Pura finzione, vaneggi della mente, bagatelle dell'immaginazione?
No, semmai il Mito consente di ampliare lo spettro dei colori che informano la realtà percepita e pensata, fino a comprendere gli ultravioletti che solo la narrazione contempla ed esige.
L'immaginazione solleva il lembo alla realtà, proprio come in Truman Show, e ci dice, ci sussurra e ci urla in faccia, che quel che facciamo e diciamo quando siamo mossi dal cogito cartesiano non basta, palesa il fiato corto.
L'immaginazione libera dalle pastoie dell'Ego, libera ciò che è ambivalente e che il principio di non contraddizione sotteso a ogni operazione logica non può tollerare, pena la perdita dell'esattezza e della attendibilità.
Questo pensiero non destituisce la ragione, ma mostra per quello che è: cavallo che corre sulla Terra e si arresta davanti al mare rimpiangendo di non avere le ali.
Ma il Mito invita  non da ultimo a riflettere sulla pochezza dell'Io, sull'importanza del Noi. Perchè solo nell'invito a prenderci cura del primo pronome plurale, la Storia mostra il volto più soave.
Ed infine il Mito, che sa ricalcare le nostre ombre, si muove sul piano della logica non usando il principio dell'aut - aut ma quello dell' et - et.
Il corredo mitologico non esclude ma comprende; e perciò è tanto potente, suggestivo, evocativo.
Per queste ragioni ho scritto il saggio sul Mito, per onorare il pronome Noi, per celebrare le endiadi, per ricordare a me stesso e suggerire a chi vuole accogliere che l'Ego va tenuto stretto al guinzaglio.
Un guinzaglio corto, il più possibile vicino alla nostra Anima.


sabato 29 agosto 2015

Una struggente tenerezza





oggi osservavo i miei genitori ultraottantenni guardare la televisione. volume alto per via della sordità incipiente e questa specie di finestra sul mondo che presentifica tutto, che allinea tutto sullo stesso piano, che mischia fossili di squali col quiz, la dominazione portoghese del Brasile con la pubblicità dei grissini.
questa specie di cloaca necessaria, all'interno della quale è così difficile rimanere a galla.
ma per loro è ciò che rimane del mondo. non una finestra, ma un affaccio, non una vita vicaria, ma la vita al costo di un canone.
se non puoi camminare, se ogni passo è un inciampo, che fai? guardi la televisione.
la noia si dilegua, le ore tra pranzo e cena diventano più sopportabili. le notizie si accavallano, si mischiano, fanno vortice e mulinello, ti ingoiano per risputarti in un altro punto dove il ricordo è meno doloroso e  si sfilaccia per lasciare spazio a questi piccoli brandelli di mondo sotto forma di pixel.
passiamo la vita, buona parte, a nasconderci alla vita. in pochi casi non ci trova. e quando le riesce ci interroga.
il senso dove sta? c'è un senso? c'è un legame, anche sottile, non importa, purché sia un legame?
la demenza senile fa il resto, scompagina, mischia, confonde, e nelle maglie larghe della rete dei ricordi si intrufolano  le immagini che provengono dal monitor lcd.
un parapiglia di immagine al netto del nesso, al più quello di non sentire che non c'è, che il senso di tutto ciò è una vocina flebile, quasi impercettibile.
eppure ci sento una tenerezza infinita, non molto diversa dalla foga del bambino alle prese col suo primo castello di carte.
il gioco non ha senso, le carte tantomeno, ma quell'impegno, quella vita che scorre facendosi largo in vene occluse, tutto questo lo porto con me, nel mio cuore.
una struggente tenerezza, proprio come il barbaglio del sole sul lago al tramonto.